Adriano Pompa, il chansonnier dell'anno Duemila

 

Non avrebbe potuto esservi mostra più indicata di questa per un artista atipico - oggi diremmo, più specificatamente, eccentrico - come Adriano Pompa. Non poteva esservi poema più adatto a quello dell'Ariosto per illustrare (l'invertimento dei rapporti - il testo che illustra l'opera - non è casuale, e vedremo in seguito perché) l'universo pompiano. In effetti, l'iconografia di Adriano Pompa è ariostesca per naturale inclinazione: essa prende a piene mani dalla tradizione quattro e cinquecentesca, è magmatica e informe all'apparenza e tuttavia rigorosissima nella sua contorta bizzarria visuale, è estrosa, policentrica ed eccentrica come il poema ariostesco; a tratti è gioiosa e induce al riso e al divertimento puro e semplice (o alla gioia degli occhi, che alle volte è parte del medesimo godimento), a tratti alla riflessione sulla storia, sul mito e sugli inganni stessi della visione, nonché sulla tradizione e sui suoi valori; è, insomma, fatua e serissima allo stesso tempo; si avvale di precisi e rigorosi schemi linguistici (l'utilizzo della foglia d'oro, dell'incisione, del disegno, dell'inserimento di altri linguaggi - dalla ceramica alla punta secca - all'interno del medium pittorico, nonché dell'uso sapiente di vere e proprie figure retoriche visive, di una floridissima simbologia iconografica e di un vocabolario visivo quantomai ricco, quasi ridondante nella sua complessità barocca) per arricchire, strutturare e in parte, tuttavia, letteralmente, mascherare quello che appare, a tutti gli effetti, come un immenso e inesausto poema epico visivo, nel quale tutti gli elementi finiscono per tornare sempre a un loro centro ideale e intellettuale, nel quale i riferimenti alla storia dell'arte, all'iconografia classica - vuoi quella della grande tradizione di derivazione rinascimentale vuoi quella dell'arte applicata (dalla maiolica alle boiserie alla decorazione d'interni) riconducibile alle molteplici scuole regionali del miglior artigianato italiano - sono naturalmente mescolati e mimetizzati all'interno di un complesso corpus visuale-narrativo che spazia dalla pittura di paesaggio (seppure secondo le differenti linee d'una figurazione di derivazione fantastica e la tendenza sempre presente, quasi intrinsecamente immanente alla pittura dell'artista, a un'astrazione dal forte dinamismo interno), a quella di carattere lirico-mitologico, a quella di carattere scientifico-razionalista (leoni, uccelli, cavalli, aquile, serpenti, sempre raffigurati e disegnati con sapiente meticolosità, e poi rinoceronti, e pappagalli, e pesci - "chi scaglioso, chi molle e chi col pelo;/e saran più che non ha stelle il cielo"), fino a quella allegorica tout court. In questo senso, l'incontro di Adriano Pompa con quel complesso castello di racconti incrociati e inestricabili e di allegorie linguistiche e visive che è l'Orlando furioso è, più che un forzato accostamento tra generi artistici differenti, come spesso avviene (il che prende spesso il nome di illustrazione), un accostamento naturale tra due universi paralleli perfettamente speculari - fatte le debite differenze, per non apparir ridicoli - e tuttavia altrettanto perfettamente interscambiabili: e in questo senso, ancora, appare davvero, la scelta di Pompa di estrapolare dal proprio corpus narrativo alcune scene, alcune figure, alcuni simboli visivi che da sempre fanno parte integrante del proprio universo pittorico (dal drago al cavaliere all'arpia all'ippogrifo fino agli scudi, ai monti e alle rocche, agli strani dèi immersi nella natura o tra i monti, che fan sgorgare l'acqua dalla propria gola), un percorso naturale, un atto di razionalissima e felicissima selezione non tanto di simboli creati ad hoc per compiacere il testo ariostesco, quanto piuttosto l'esatto suo contrario: l'atto di scegliere, appunto, deliberatamente, i passi dell'Orlando Furioso adatti ad accostarsi, dunque in qualche modo ad illustrare, il complesso universo da cui sgorga la propria vena pittorica e - potremmo dire - poetica: ecco allora adattarsi il volto e il fisico di Alcina, "con modi graziosi e riverenti", a un'enigmatica figura femminile affacciata su un paesaggio tipicamente pompiano; ecco "la bella Bradamante", racchiusa nell'elmo e nella corazza dei cavalieri di cui sempre Pompa ammanta i suoi strani metaforici guerrieri, attendere", con l'asta in mano, e lo scudo nell'altra, "il desiderato suo Ruggiero"; ed ecco Cimosco adagiato sotto a un albero, e un cavaliere notturno, raffigurato con un sapiente gioco di intagli, di linee e dorature - allegorie linguistiche cui Pompa non sa mai rinunciare -, che trova nell'acostamento col Furioso il suo naturale complemento; ecco la complessa architettura, minuziosamente disegnata, dell'assedio di Parigi da parte dei Mori ("come li storni a' rosseggianti pali/vanno de mature uve: così quivi,/empiendo il ciel di grida e di rumori/veniano a dare il fiero assalto i Mori"); ecco l'Arpia, e il Mago Astolfo, ecco Angelica fuggitiva come un personaggio da tragedia greca; ecco i draghi e i pesci volanti ("muli, salpe, salmoni e coracini/nuotano a schiere in più fretta che ponno;/pistrici, fisiteri, orche e balene/escon dal mar con mostruose schiene"), ecco le enormi conchiglie che formano avvallamenti nei paesaggi, ecco monti lontani e soli e lune che si avvicendano nei cieli, come in un unico universo, fantastico e surreale; ecco, insomma, non già un mondo creato ad hoc in virtù del poema ariostesco, quanto piuttosto una ben calibrata selezione dei topoi visivi e narrativi classici dell'artista da lui stesso estrapolati, riposizionati e solo in parte rielaborati, con un occhio alla pittura e l'altro direttamente a seguire le variazioni, i passi, e la musicalità, del testo del grande ferrarese. Quella di Adriano Pompa è, infatti, come il testo ariostesco, una complessa impalcatura pittorica dalla natura doppia o tripla o quadrupla, zeppa di riferimenti alla storia dell'arte e a quella della letteratura, a tratti volutamente astrusa e machiavellica, come una sorta di grande e felicissima trappola del vedere, un gioco pittorico e linguistico che coniuga dentro di sé vista e intelletto, pittura e ragionamento, una trappola che utilizza sì il linguaggio della pittura, i suoi codici, i suoi riferimenti storici tradizionali, ma nello stesso tempo li trascende, rendendoli parte integrante di essa, e portandoci, noi semplici lettori e spettatori, a pascolare liberamente tra pianure incantate, paesaggi lussureggianti ricchi di piante meravigliose e mai viste prima, figure mitologiche che al momento in cui guardiamo ci paiono perfettamente credibili e possibili, avventure e gesta di strani personaggi di cui, superate le naturali difficoltà di approccio linguistico - dovute alla deliberata presa di distanza dalla lingua tipica della contemporaneità -, possiamo godere e soffrire e finanche ridere a crepapelle. La cifra su cui Pompa lavora è infatti quella del fantastico e del simbolico, e questa sua scelta radicale è tanto più forte nella misura in cui questi due ambiti sono stati fortemente emarginati dalla cultura oggi dominante nell'arte contemporanea. Pompa è infatti un artista che ha scelto di recuperare, con una buona dose di coraggio e una forza nel segno e nei temi del tutto inusuale tra gli artisti di oggi, la dimensione simbolica dell'esistenza, per tornare a vedere gli oggetti, le azioni, le espressioni che la stessa contemporaneità ci offre come i simboli di una realtà che, pur mutando nei suoi aspetti esteriori, non muta però nei suoi caratteri essenziali. Quella di Pompa è una sfida con la contemporaneità che non va però confusa con un recupero di tipo citazionista o peggio ancora di un rifugiarsi aristocratico nei territori dell'arcaico o del classico: i suoi sono i simboli e i fantasmi di una mitologia e di una spiritualità che non è quella imbalsamata e assopita dei libri di testo o dei cantici malamente imparati sui banchi di scuola: Pompa ci parla infatti, senza complessi di inferiorità, di canzoni e di gesta, di un mondo simbolico e fantastico, attraverso i simboli che la storia dell'arte ha utilizzato da sempre: attraverso le silhouettes dei cavalieri, gli elmi, le corazze, i draghi volanti, i paesaggi incantati e dorati - quasi si trattasse di dischiudere, per un momento soltanto, quell'immensa riserva di simboli che la storia dell'umanità, e la storia dell'arte e della letteratura, hanno trattenuto con cura, per secoli, dentro al loro seno. Il suo è un divagare felice ed eccitato in quel territorio sconfinato che è la storia dell'arte, è un pescare libero e disincantato ora da un vaso cinquecentesco ora da un dettaglio ritrovato in un portale barocco, è un rubare un gesto, un dettaglio, un volto al ricordo di un passo dell'Ariosto o a una terzina dantesca per restituirlo al mondo in forma di pittura o di scultura. Adriano Pompa non cita, ma dipinge pescando a piene mani dal mito, dalla storia dell'arte, dal ventre molle del nostro immaginario culturale, meravigliando e affascinando lo spettatore col tocco divertito di un chansonnier de geste sopravvissuto come uno stralunato naufrago alla furia del tempo.

ALESSANDRO RIVA

 

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